Diario
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Mai stato più d’accordo con Marco Giusti

Leggo, condivido e posto.

Ci risiamo. Tutti a piangere anche quest’anno per l’esclusione del film italiano candidato all’Oscar per il Miglior Film Straniero, in questo caso il non troppo convincente “Terraferma” di Emanuele Crialese, che non arriva neanche alla spiaggetta della short list dei nove titoli scelti su 63 da scremare ulteriormente al numero di cinque. Po-po-po-popio un’altra figura di merda! Perfino Paolo Mereghetti stamane si domanda acutamente se non ci sia qualcosa che non funziona nella nostra diplomazia cinematografica internazionale. Ma va?
Del resto da un paese che da anni sembra guidato allo sbaraglio economicamente e culturalmente dal Comandante Pasquale Schettino (“Torna a bordo, cazzo!”) che si può pretendere? Per fortuna che l’ex-ministro Galan (sì, è stato ministro dei Beni culturali…) ci ha regalato delle nomine eccellenti come Gigi Marzullo nella commissione ministeriale per la promozione del nostro cinema e tutto il gruppone del suo programma “Cinematografo” in quella per vagliare le opere prime e seconde (da Anselma Dell’Olio a Valeria Licastro Scardino, ex segretaria di Confalonieri e moglie dell’onorevole Martuscello, da Antonia Postorivo, moglie del senatore PDL Antonio D’Alì a Carlo Cozzi, critico de Il Secolo, da Gianvito Casadonte, direttore del Magna Grecia Film Festival agli eterni Enrico Magrelli e Valerio Caprara…).
Tutta gente esperta che, mentre Medusa sta tagliando più della metà del numero di film che aveva prodotto l’anno scorso, saprà risollevare le sorti del nostro cinema migliore e la sua immagine nel mondo.
Ora, detto che probabilmente è stato uno sbaglio scegliere “Terraferma” come film italiano dell’anno, preferendolo a “Habemus Papam” di Nanni Moretti che almeno aveva una storia forte e originale col papa che si perde per Roma, diciamo anche che dalla rosa dei nove titoli sono stati esclusi registi importanti come Zhang Yimou, Ann Hui, Kaneto Shindo, Nikita Mikhalkov, Nuri Bilge Ceylon e film di grande successo internazionale come il brasiliano “Tropa de Elite 2″ di José Padilha, il francese “La guerre est declarée” di Valérie Donzelli, lo svedese “Beyond” di Pernilla August, il libanese “E ora dove andiamo?” di Nadine Labaki.
Inoltre, tra i nove finalisti, a parte il bellissimo film iraniano “A Separation” di Asghar Farhadi, che è indicato da mesi come sicuro vincitore del premio, non troviamo proprio grandissimi titoli, ma una serie di opere provenienti da cinematografie emergenti e del tutto diverse scelti, crediamo, per i motivi più disparati che hanno in comune solo dei soggetti forti.
Non c’è, ad esempio, nessun film francese, tedesco, italiano, spagnolo, giapponese, ma il belga “Bullhead” (“Rundskop”), opera prima di Michael R. Roskam, distribuito dalla potente Celluloid Dreams, dedicato alla mafia degli ormoni delle mucche, c’è il taiwanese “Warriors of the Rainbow”, opera prima di Wei Te Sheng, prodotto dal potente John Woo e presentato in concorso a Venezia, 24 milioni di dollari di budget e 30 già incassati in patria, violentissimo kolossal bellico sulla rivolta della popolazione indigena di minoranza Seediq a Taiwan durante l’invasione giapponese (questi Seediq avevano l’originalità di tagliare e conservare le capocce tagliate dei nemici…).
E, ancora, c’è il marocchino, anche se di co-produzione francese, “Omar m’a tuée”, opera seconda di Roschy Zen, già attivissimo come attore in Francia, c’è il canadese di minoranza francese “Monsieur Lazhare” di Philippe Falardieu, storia di un insegnante algerino in una scuola elementare del Quebec, la commedia danese “Supeclàsico” di Ole Christian Madsen e due immancabili film sui grandi temi ebraici che fanno impazzire il mondo di Hollywood, il polacco (ma coprodotto da Germania, Francia e Canada) “In Darkness” della veterana Agniezka Holland, che ci porta nella Polonia occupata dai nazisti dove un ladro di professione salva decine di ebrei nascondendoli nei sotterranei della città di Lvov, e il curioso israeliano “Footnote” dell’ebreo newyorkese Joseph Cedar, dedicato a uno scontro accademico tra studiosi di Talmud che sono padre e figlio.
Il figlio è un genio e il padre un cialtrone, solo che quando il più celebre premio accademico d’Israele viene vinto ancora una volta dal figlio, l’inviato della giuria si sbaglia e manda la convocazione al padre creando non poco imbarazzo nel figlio. Andrà a finire malissimo, ovviamente. Non ci pare, però, che nell’elenco dei nove titoli della short list per l’Oscar al Miglior Film Straniero, a parte qualche distributore o produttore importante, ci sia stato tanto lavoro di diplomazia internazionale.
Certo, il film taiwanese prodotto da John Woo (e gloria di Marco Muller che lo ha fortemente voluto a Venezia) uscirà nelle sale americane il 14 febbraio in versione ridotta (due ore al posto delle quattro e mezzo originali), il film di Cedar e quello della Holland sono già pronti per il mercato americano, ma non si può dire la stessa cosa di tutti i titoli.
Inoltre ci sono molti film dedicate a minoranze etniche, non solo i fantomatici Sediq, ma i fiamminghi, i francesi del Quebec, ci sono film parlati in danese, iraniano, polacco. E non è vero neanche che contano così tanto i festival americani. I nove titoli vengono da nove festival diversi, Cannes, Venezia, Berlino, Toronto compresi.
La verità è che il nostro cinema sembra non produrre più storie, soggetti originali. Siamo ingolfati da una parte nelle commedie, che vivono solo nel nostro mercato (al massimo arrivano in Spagna), e da un’altra parte in una serie di film da festival, distribuiti da Medusa e da Rai Cinema, che non hanno nessun successo economico in patria, non vincono premi nei festival, a parte i casi già lontani di “Gomorra” e “Il Divo”, e difficilmente riescono a avere una vita internazionale.
Seguitiamo a produrre come film da festival titoli che non possono competere spesso con quelli stranieri in originalità e riuscita (vedi Avati, Crialese, Comencini, più adatti al mercato interno), quando sarebbe meglio puntare su un cinema più estremo e coraggioso.
Che magari non porterà a un successo immediato (Bruni, Gipi, De Gregorio, Rohrwacher), ma può essere potenziato. Senza un vero cinema d’arte da esportare, a parte i casi isolati di Garrone, Sorrentino, Moretti, Bellocchio e altri due o tre nomi di autori, è un bel po’ difficile parlare di colpe della nostra diplomazia.
Le colpe sono dei nostri produttori che seguitano a non sperimentare, di registi che fanno cinema da festival come se girassero “Un posto al sole”, dei direttori dei festival che accettano dai nostri produttori titoli modesti, dei critici dei giornali che spesso non sono all’altezza del loro compito e illudono autori e produttori creando inutili attese, della commedia borghese che si mangia tutti i budget, anche quelli ministeriali, giocando su storie ovvie cercando di sopravvivere a se stessa (e allora cento volte meglio “I soliti idioti” o “Che bella giornata”).
Se non ricostruiamo un cinema, degli autori, delle storie, sarà un po’ difficile pretendere di arrivare non tanto agli Oscar, ma almeno a riempire qualche sala. Magari la crisi, che ci obbligherà a produrre film a basso costo, ci potrebbe portare qualche buona sorpresa. Che magari arriverà, visto che stanno uscendo proprio adesso film interessanti e difficili come “Acab” di Stefano Sollima e “Diaz” di Daniele Vicari.
Ma, in generale, non crediamo che la strada che vogliano intraprendere i nostri produttori sia quella di finanziare film realistici di denuncia o la sperimentazione illuminata a basso costo, con l’attento sguardo della commissione cinema marzulliana, o quella di limitare i budget delle nostre star maggiori e dei nostri più inutili registi.
Certo, con un cinema così mal ridotto, si rischia di finire non alla serata degli Oscar ma dritti sugli scogli del Giglio, senza nessun capitano De Falco che almeno ci urli “Torna a bordo, cazzo!”.

Marco Giusti per Dagospia
Fonte:Dagospia

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